Questi percorsi artistici sono occasione per ri-mettere in campo uno spazio di incontro tra il modo di sentire personale e quello del professionista (che incarna il suo essere persona con un bagaglio di formazione e conoscenze e una fiducia nell’istituzione), e che mette a disposizione perturbazioni mirate alla crescita umana e professionale di tutti i suoi dipendenti. La cura della persona a domicilio è un punto di incontro tra diverse umanità, e ciò fa sì che ogni situazione, per l’operatore (e da operatore ad operatore con lo stesso utente) sia diversa. Per questo, la rigorosità professionale (costantemente ri-attivata attraverso la formazione continua) e la creatività soggettiva devono allinearsi su un piano di equilibrio.
Concretamente, quando un operatore è portato ad attivare la sua sfera di creatività soggettiva?
Ogni operatore sa cosa deve fare e risponde in ogni momento nel modo migliore possibile - nella specifica situazione contestuale - al bisogno nella sua concretezza, a seconda della sua professionalità. Ma il “sapere come” si attua con quella persona specifica? Oppure serve anche una dose di creatività individuale per incontrare l’unicità dell’altro? E come far sì che la creatività individuale dell’operatore generi benessere a tutti gli effetti? Ecco, incontrare l’arte può aiutare a dare qualche risposta nuova, attivando dei parallelismi tra il come la persona-operatore incarna il suo sapere e il come lo usa per leggere in modo aperto e interessato la concretezza del bisogno della persona-utente, che vive una realtà a partire dai suoi parametri di senso della vita. In questo senso, l’arte va ad allargare l’orizzonte di attribuzione di significato per l’operatore, offrendo nuovi confini e nuovi sguardi che favoriscano l’incontro e la risposta migliore possibile.
Protocollo e creatività collaborano in egual misura nel lavoro degli operatori?
Ecco, attivare con consapevolezza questa creatività, unita all’utilizzo dei migliori protocolli riconosciuti e indispensabili, è la chiave per svolgere bene il lavoro. Oltre, ovviamente, ad “esserci” con la propria sensibilità e umanità, nella consapevolezza del proprio ruolo di curante.
La formazione ha una valenza prettamente lavorativa?
No, non solo. Uno degli obiettivi è sicuramente quello di esplorare e approfondire la conoscenza di sé come persona che dedica del tempo alla sua competenza professionale, ma con la possibilità di ripensare sé stessa nei grandi temi dell’umano: la cura, la sofferenza, la morte, la normalità, l’accompagnare nella relazione. Tutto ciò a partire da uno stimolo potentemente non solo cognitivo, ma anche emotivo o sensoriale.
Lei e il suo gruppo di supervisione come interagite durante la formazione al museo?
Io e una delle colleghe del gruppo di supervisione , Daniela Bertamini, Elena CIanitto, Savina Stoppa-Beretta, Valentina Molteni e Sabrina Rocchi, ognuna presente ad una esposizione specifica, introduciamo brevemente il senso generale di ciò che si sta andando a fare, invitando ad esperire la mostra con lo sguardo del “me artista” e del “me professionista”; in altre parole, l’invito è di provare ad osservare gli oggetti della mostra sia dal punto di vista dell’artista (che interpreta la realtà attraverso la sua arte, lasciandoci così la sua testimonianza di un’epoca), sia dal punto di vista di “me operatore” (guardare il senso del proprio operare, degli incontri professionali, degli scambi avuti con le persone-utenti e le persone-colleghi e della ricchezza che se ne ricava). C’è anche un aspetto emotivo che invitiamo a far emergere: agli operatori, infatti, viene richiesto, prima di immergersi nella mostra, di lasciarsi ispirare da sentimenti, emozioni e pensieri che nascono da quanto visto, percepito e ascoltato nei ricchissimi e stimolanti racconti della Direttrice nel guidare nell’esposizione.
Come pensa che si incontrino mondi apparentemente così distanti come l’arte e la cura delle persone?
Così come gli artisti, anche gli operatori della cura sono figli del loro tempo e sono immersi in una determinata realtà: entrano nelle case con un’idea della cura, per poi sviluppare un modo unico e soggettivo di essere curanti, interpretando creativamente e vivendo, come artisti del nostro tempo e di quello passato, “L’ARTE DELLA CURA”. È importante evidenziare come la loro sensibilità li guidi nell’interpretare il proprio entrare negli spazi di vita più personali e privati, e nel vivere il proprio dare cura a partire dal senso che attribuisce alle cose (indici di sanità, di malattia…). Anche se spesso non se ne accorge, l’operatore si lancia continuamente in una sfida alla ricerca del bello anche in un contesto di cura, di dipendenza e di sofferenza, cogliendone le varie sfaccettature.
Prima della mostra viene dato, ad ogni operatore, un petalo di carta, su cui scrivere una frase o una parola chiave alla fine della mostra. Ci può descrivere come nasce e come si sviluppa questa idea?
Il petalo serve ad esprimere un pensiero, un’emozione, un’immagine e a far emergere il proprio sguardo di artista. Quello che vediamo alla mostra attraversa la reinterpretazione dei canoni culturali che tutti condividiamo (a volte anche senza accorgercene), ma in ognuno di noi risuona diversamente portando anche a scelte diverse, così come risuona la propria appartenenza culturale e professionale al mondo dei professionisti della cura. Il petalo verrà poi ripreso nel contesto della supervisione, per poi sfociare in una rilettura collettiva: unendo i petali individuali, verranno condivisi e co-costruiti nuovi sguardi e nuove opportunità di crescita personale e professionale.